Sull’essere se stessi


Questa breve relazione, il cui contenuto richiederà ulteriori approfondimenti, è stata scritta in occasione del primo workshop del gruppo di adulti della LIDI, guidato da Renzo Marinoni, che si è tenuto a Caprarola a fine agosto. Essa mira a differenziare il significato di tali incontri rispetto agli infiniti workshop, ispirati ad una confusa filosofia new-age, che ormai si tengono su tutto il territorio nazionale (a costi piuttosto onerosi). Perché si è posta questa necessità? Perché il linguaggio, i cui limiti sono noti, è una dimensione polisemica: lo stesso termine assume significati profondamente diversi in rapporto a chi lo usa, al contesto nel quale viene utilizzato e alla funzione che esso è destinato a svolgere.

Alla valenza polisemica del linguaggio, che, come ha scritto Eco, può essere utilizzato anche per ingannare, si può rimediare inventando neologismi. Questo rimedio non è però sempre opportuno. E' giusto utlizzare termini comuni specificando però con precisione il significato che ad essi si dà.

1.

Per chi, come me, ha vissuto la stagione degli anni Settanta, caratterizzata da una tensione critica e convulsa univocamente orientata a contestare un processo di omologazione che sembrava inesorabile in conseguenza dell’avvento della società del “benessere” e del consumismo, ritrovarsi immerso nella realtà contemporanea è come un brutto sogno. Non solo, infatti, la più nobile “illusione” di quella stagione – il diritto dell’individuo di opporsi all’omologazione borghese per pervenire ad una esperienza autentica e realizzare la sua vocazione ad essere – è di fatto tramontata; essa è stata paradossalmente riciclata dal sistema sotto forma di un martellante richiamo all’essere se stessi: formula accattivante, che sembra recepire il bisogno di individuazione e sollecitare ogni soggetto a realizzare una personalità differenziata e originale.

Per non correre il rischio di fraintendimenti, occorre riflettere su questa formula partendo dalla situazione storica che l’ha generata.

La rivolta giovanile degli anni Settanta aveva un bersaglio univoco: il conformismo piccolo-borghese della generazione dei Padri, affermatosi a partire dal dopoguerra e vissuto da essi come un valore in quanto contrassegnava l’appartenenza al mondo del decoro, delle buone maniere, del rispetto delle tradizioni, del vivere come si deve: in breve, dei “Signori”.

Questo processo collettivo di imborghesimento aveva le sue ragioni di essere in quanto, per molti cittadini inurbati, si configurava come un salto di qualità rispetto alla miseria, all’ignoranza, alla vergogna delle origini “volgari”.

Quella che ai giovani appariva un’omologazione per molti padri era la fine della discriminazione in quanto poveri, miserabili, ignoranti, ecc. Essi non solo erano contenti di omologarsi, di giungere cioè ad appartenere alla classe dei “signori”, sia pure alla base della piramide sociale dell’universo borghese, ma identificavano nel conformarsi alle abitudini e agli stili di vita di quella classe il segno certo del riscatto.

Guardato con occhio critico (com’era quello di molti giovani all’epoca), questo processo di imborghesimento era patetico poiché sovrapponeva alla cultura popolare che, con i suoi limiti, aveva una sua schiettezza e una sua etica (quella rilevata da Pasolini), codici di comportamento formali simulati più che assimilati.

Il conflitto generazionale, analizzato a posteriori, può essere agevolmente ricondotto al contrasto tra omologazione o conformismo (essere come gli altri) e differenziazione o individuazione (essere se stessi). Quella che per i padri era una conquista per molti figli era una iattura.

Rievoco questo conflitto perché i suoi esiti si possono considerare paradossali. Di fatto, il conformismo ha avuto la meglio e il modello di vita borghese è divenuto dominante. Come era prevedibile, però, quel modello è andato incontro ad un singolare cambiamento omologabile al versare vino nuovo in una botte vecchia: il definirsi di un nuovo modello di conformismo mascherato, per l’appunto, dal richiamo ad essere se stessi.

Sarebbe lungo analizzare le ragioni profonde di questo cambiamento, che, ovviamente, è più apparente che reale. Si arriva prima a capirle con un esempio banale.

Tra le spinte del passato all’omologazione, l’essere dotati di un veicolo privato ha segnato un’epoca (ironicamente rappresentata da Fantozzi). Per molti anni, la 500, la 1100, la Consul hanno rappresentato per i padri l’oggetto del desiderio. Oggi, la macchina rimane un’ossessione collettiva, ma, anche a livello giovanile, nessuno sopporta di avere un veicolo banale. Non è un caso che la riedizione della 500 comporta una lista indefinita di opzioni e di accessori tale che il proprietario può giungere a sentire di avere un modello unico e irripetibile: una macchina, insomma, espressiva della sua personalità.

Essere se stessi, insomma, è divenuto un nuovo modello di omologazione più insidioso rispetto al precedente, che privilegiava l’essere come gli altri.

2.

Non penso opportuno, qui, analizzare in profondità le caratteristiche di tale modello. Basterà rilevare che esso ha attualmente due diverse configurazioni: una più popolare, l’altra elitaria.

La prima, che si può definire estrovertita, esprime al massimo grado il bisogno di appartenenza sociale nella forma alienata di condivisione dei valori del “branco”: il culto dell’immagine esterna, il consumismo compulsivo, l’adozione di emblemi di riconoscimento, l’individualismo edonistico, la pratica commerciale dei rapporti e degli affetti, ecc. Il carattere omologante di questo modello è mascherato dal narcisismo individualistico che promuove, il quale porta ogni soggetto a pensare che la sua immagine, le sue scelte di consumo, la sua pratica della vita siano uniche e irripetibili.

La seconda configurazione (new age o radical-chic) è ancora più insidiosa perché essa sembra incentrarsi su un rifiuto radicale dell’estrovertimento e su di un richiamo a valori interiori o spirituali. Di fatto, cambia solo il “branco”, che diventa elitario, e lo stile di vita che va esibito per essere riconosciuti come appartenenti ad esso: uno stile fondato su di una certa raffinatezza formale, sulla cura (ossessiva) del corpo e dell’abbigliamento, su scelte culturali “impegnate” (per esempio l’ecologia), su pratiche spirituali di ascendenza orientale, ecc.

Che cosa consente di criticare questa seconda configurazione e di ritenerla mistificata? Il fatto che le persone che si riconducono ad essa vantano di aver fatto mirabolanti tragitti interiori, di aver scoperto se stessi, di essere cambiati profondamente, ma tutto questo è avvenuto non solo senza un travaglio profondo, ma per effetto di una sorta di illuminazione progressiva che rende il cambiamento incredibile (e di fatto smentito dal modo in cui le persone vivono).

In un libro (Abracadabra), che sarà tra poco nuovamente pubblicato, ho scritto: “Capire e cambiare, anche solo di una virgola, qualcosa della propria personalità richiede un duro lavoro. Bisogna, infatti, fare i conti con le trappole intrinseche al singolare congegno impiantato nella scatola cranica, con quelle, ancora più insidiose, che la cultura ha prodotto e produce per ridurre l’impegno personale di capire qualcosa della giostra della vita, e, infine, con la cronica tendenza dell’io cosciente alla mistificazione, vale a dire a fare carte false pur di non vedere come stanno le cose (fuori e dentro di sé)”.

Rimango assolutamente convinto di questo, ma devo ora cercare di dire in quale misura ciò riguardi la teoria e la pratica della LIDI.

In rapporto al modello dominante (sia popolare che elitario), l’introversione rappresenta un orientamento disfunzionale perché i molteplici tentativi che gli introversi (con rare eccezioni) pongono in atto per adattarsi ad esso e mascherare la propria diversità cadono solitamente nel vuoto, quando addirittura non incrementano il disagio legato all’esposizione sociale.

L’ostacolo, come noto, è un vincolo genetico. Come ogni essere umano, l’introverso ha bisogno di appartenere e di essere riconosciuto dal gruppo. Il vincolo è dovuto al fatto che, nel corredo introverso, il bisogno di individuazione non può essere sacrificato sull’altare dell’appartenenza: esso mantiene una tensione costante verso un modo di essere autentico, vale a dire rispettoso di un sentire originario che implica, in rapporto a sé e agli altri, la valorizzazione dell’umano piuttosto che la sua mercificazione. Insomma, per quanto impegno possa eventualmente metterci, all’introverso diventa difficile coltivare la propria immagine sociale, vendersi e usare gli altri ricavandone qualche vantaggio.

Si deve dare per scontato che l’adesione alla LIDI implichi almeno l’intuizione che la condizione introversa, affrancata dalla suggestione del modello normativo dominante, possa evolvere nella direzione di un modo di essere autentico.

Ma è proprio il riferimento all’autenticità a rappresentare un problema che può confondere le idee, perché esso è implicito nel diritto-dovere ormai imposto dal sistema di essere se stessi.

E’ paradossale che, mentre il mondo sembra impegnato a rifuggire dall’omologazione, in nome della “mania”collettiva di essere qualcuno per sfuggire all’incubo dell’insignificanza (essere nessuno), alcuni introversi (e non sono pochi) coltivano il desiderio più o meno consapevole di essere come gli altri.

La LIDI intende promuovere un processo autentico di differenziazione e di individuazione, che va però specificato (a scanso di equivoci).

La fatua moda dell’essere se stessi ha, infatti, messo in moto un’offerta di aiuto specifica nell’ambito della psicologia, ancella da sempre del sistema se non altro perché specula sui mali che esso produce. Da alcuni anni a questa parte, la convergenza del cognitivismo, della psicologia positiva e della cultura new age ha dato luogo ad una pratica di gruppo orientata ad agevolare l’individuazione in virtù di un tragitto “spirituale” che riabilita il contatto con il corpo, con il mondo interiore e con le emozioni, restaurando una condizione di integrazione e di autenticità.

E’ superfluo dire che la proposta rivolta dalla LIDI agli introversi – il rientrare nella propria pelle e coltivarla – ha poco da spartire con questa moda, il cui significato storico-culturale implica la presa d’atto che l’uomo contemporaneo vive normalmente in un regime di isolamento emozionale e di anestesia affettiva.

La differenza tra la proposta della LIDI e la mercificazione delle tecniche orientate a promuovere l’autenticità è radicale, e per essere illustrata adeguatamente richiederebbe un lungo discorso (in parte implicito nello scritto di Renzo). Lo sintetizzo nella maniera più semplice e concreta. Il problema dell’autenticità non sta nell’essere se stessi ma nel diventare se stessi per chi non ha mai accettato la propria diversità o nel ridiventarlo per chi ha tentato di liberarsene.

Non si tratta di una questione di lana caprina. Nell’accezione new age basta scrostare un po’ l’intonaco e il vero sé viene fuori d’incanto, come per magia. Nell’ottica della LIDI, invece, il diventare o il ridiventare se stessi implica un processo evolutivo, per alcuni aspetti doloroso, che deve fare i conti con l’alienazione indotta dall’ambiente, dalla cultura e dal modello normativo dominante. Il processo è difficile perché l’alienazione normativa non è semplicemente sovrapposta all’essere, ma lo permea, lo impregna, s’intreccia inesorabilmente con esso.

Laddove la cultura new age propone la riscoperta del vero Sé, che si manterrebbe in profondità sempre integro, la LIDI ritiene che l’individuazione sia un processo di demistificazione, vale a dire di riconoscimento di un’alienazione alla quale, nel nostro mondo, non sfugge nessuno.

In questa ottica - di diventare o ridiventare se stessi - il problema delle emozioni diventa fondamentale, ma illudersi che basti ristabilire un contatto con il proprio mondo interiore per risolverlo è ingenuo e deleterio.

3.

Posto che in ogni essere umano si dà un patrimonio originario di emozioni (quelle di base – paura, rabbia, tristezza, dolore, piacere, ecc. – e quelle specificamente umane – amore/odio, empatia, senso di dignità e di giustizia, intuizione emozionale dell’infinito), più o meno ricco nei diversi individui, occorre considerare che le emozioni hanno ciascuna una storia, intrecciata con l’esperienza che il soggetto fa del mondo, in conseguenza della quale esse possano assumere una configurazione funzionale o disfunzionale.

Nell’ambito delle esperienze introverse, la storia delle emozioni esita con notevole frequenza in un groviglio disfunzionale. Ho tentato di analizzare in termini generali questo aspetto riconducendolo alla “sindrome di Robespierre”, vale a dire ad un accumulo di quote più o meno imponenti di rabbia, che inesorabilmente produce non meno imponenti sensi di colpa. La rabbia, spesso riconosciuta a livello cosciente, è addirittura razionalizzata come reazione inevitabile alle varie circostanze di vita che pongono di fronte all’insensibilità, alla rozzezza, all’aggressività, alla prepotenza, ecc. Come si può – si chiedono molti introversi – non odiare un mondo così lontano da una soglia minima di umanità e di moralità?

Io credo che si possa, dato che il superamento della rabbia è un momento fondamentale sulla via del diventare se stessi e del non rimanere impigliati in un’esasperata attenzione riferita a come è fatto male il mondo. Dirò tra poco come questo possa accadere.

Rimane il fatto che la razionalizzazione e la giustificazione della rabbia adottata dagli introversi non reggono a livello di foro interno, laddove essa è sistematicamente colpevolizzata in misura direttamente proporzionale alla sua intensità (che spesso raggiunge il grado massimo della scala Mercalli)..

I sensi di colpa non sempre sono riconosciuti a livello cosciente, ma gli indizi che ne attestano l’attività dinamica sono facilmente reperibili all’interno di molte esperienze introverse.

Un indizio costante e altamente significativo è la ritorsione della rabbia contro di sé sotto forma di un giudizio ipercritico devastante, che porta l’introverso a pensare che, se gli altri sono fatti male, lui è fatto peggio.

Un altro indizio significativo dell’attività dei sensi di colpa è riconducibile all’aspettativa del male, che rappresenta l’espressione inconscia di una “giusta” punizione. Tale aspettativa ha uno spettro espressivo molto ampio che va da sintomi franchi (ricorrenti depressioni, ansie ipocondriache, attacchi di panico, fobia legata all’esposizione sociale, ecc.) a vissuti più o meno stabili che fanno capo alla propria immeritevolezza o indegnità e si traducono in un senso profondo di solitudine interiore, sottesa dalla previsione di essere destinati a perdere tutti i rapporti significativi e a finire soli come cani.

La voragine di malessere e di angoscia che si apre ogni tanto nel mondo interiore degli introversi è l’espressione di questi vissuti.

Se le cose stanno così, è evidente che, al di là del vantaggio di interagire in un gruppo di persone che riconoscono una comune sensibilità e sono disposte a mettere in comune la propria esperienza, il diventare se stessi non può prescindere da un lungo lavoro di “disintossicazione” e “distillazione” emozionale.

Si tratta senz’altro di un tragitto interiore che può essere agevolato dall’interazione di gruppo. Ma terrei a sottolineare che, rispetto alla cultura new age, che considera astrattamente l’individuo come un ente separato dal mondo e indefinitamente perfettibile sotto il profilo spirituale, nell’ottica della LIDI, il soggetto e il suo mondo – quello vissuto nel quotidiano e quello rappresentato interiormente – sono le due facce di una stessa medaglia. Il cambiamento necessario perché un introverso consegua un equilibrio interiore e un minimo di serenità riguarda, al tempo stesso, l’immagine che il soggetto ha di sé e la percezione che ha del mondo.

Su quale base si può avviare e realizzare questo cambiamento? Pur credendo profondamente nella creatività del gruppo, mi permetto di proporre due criteri fondamentali, dei quali non saprei dire qual è il più importante: la clemenza e l’equità.

Si tratta di termini che vengono solitamente riferiti all’attività dei giudici. A me sembrano però appropriati perché sia le rabbie che i sensi di colpa i quali affliggono gli introversi sono, di fatto, l’espressione di valutazioni che muovono da un codice perfezionistico.

4.

La clemenza fa capo alla necessità di comprendere i comportamenti prima di giudicarli, prescindendo dal presumere che chi li agisce, e ne è dunque di fatto responsabile, sia pienamente consapevole di quello che fa e del perché lo fa.

Partendo da questo criterio, si comprende immediatamente che il comportamento di molte persone nel nostro mondo corrisponde ad una reazione a catena difensiva, incentrata sul principio per cui chi si tiene fermo a certi principi morali mentre gli altri li violano ci rimette, fa la figura del debole, dell’inetto e del “fesso”. Nella loro superficialità e scarsa sensibilità, i comportamenti medi non fanno altro che ispirarsi alla legge della sopravvivenza del più forte.

Il problema è capire come e perché, all’interno di una civiltà incentrata su principi ugualitari e legalitari, si sia prodotto un quadro mentale del genere che pone ogni soggetto, in molteplici circostanze della vita, di fronte all’alternativa secca di far torto o subirlo. Ma il discorso si dilaterebbe troppo sul piano sociologico. E’ un fatto che finché tale quadro mentale s’imporrà alle coscienze con la forza di una legge di natura, non c’è da aspettarsi alcun cambiamento dello stato di cose esistente nel mondo.

Gli introversi possono sostenere a ragione che loro stessi avvertono la pressione di questo codice comportamentale, e talora hanno la fantasia di essere come e peggio degli altri (per dare loro una lezione). Ciò di cui non tengono conto è che loro sono tutelati dal pericolo di realizzare tale fantasia dall’intuizione del prezzo, in termini di sensi di colpa, che sarebbero destinati a pagare. L’essere dotati di una sensibilità sociale che oppone resistenza ai meccanismi di anestetizzazione morale che prevalgono nella maggioranza della popolazione è un valore ed un merito se essa viene coscientemente coltivata, ma, almeno nelle sue origini, è un vincolo genetico, quindi un freno inibitorio naturale.

Oltre che al mondo esterno, la clemenza va riferita anche a se stessi. Il ritrovarsi dentro quote di rabbia micidiali, associate spesso alla fantasia di vendicarsi, di far male, e al limite di “tagliare la testa” a chi se lo merita, non attesta alcuna criminalità o malvagità. E’ la conseguenza dell’incomprensione di come stanno le cose nel mondo, e di quanto le persone in genere sono molto meno libere di quanto si tenda a pensare e di quanto esse stesse pensino.

La clemenza promuove una comprensione profonda della condizione umana. Nel nostro mondo è come se gli uomini fossero ingabbiati in un sistema sociale, economico e culturale che li incattivisce. Tutti sono arrabbiati e intolleranti. La differenza è che negli introversi queste emozioni rimangono a livello di fantasia, mentre in altre persone esse danno luogo ad un’anestetizzazione morale che consente, in una certa misura, di agirle.

E’ superfluo sottolineare che la comprensione di cui si parla, nella misura in cui richiede di andare al di là delle apparenze, per cui le persone sembrano perfettamente consapevoli di ciò che fanno e intenzionate a farlo, non ha nulla a che vedere con una giustificazione. E’ a questo punto che entra in gioco l’altro criterio valutativo, l’equità.

Un giudizio equo sulle persone non può prescindere dalla valutazione del peso reale, oggettivo che hanno i loro comportamenti e delle conseguenze che determinano a carico degli altri. Se anche si giunge a comprendere che un soggetto agisce un comportamento socialmente nocivo per la paura di subirlo, ciò nulla toglie alla nocività del comportamento stesso.

Il peso oggettivo dei comportamenti deve essere valutato però tenendo conto delle attenuanti, vale a dire di tutte le motivazioni che concorrono a determinarlo. Non si tratta di chiudere gli occhi o di perdonare, ma di capire che l’alienazione nel nostro mondo è giunta ad un livello tale che le persone agiscono come automi programmati per difendersi dalla fobia universale di essere deboli o di farsi mettere sotto dagli altri. Una difesa del genere, adottata universalmente, non può portare che ad un modo di vivere aspro, egoista, diffidente, competitivo,ecc.

Lo stesso criterio di equità deve essere adottato dagli introversi per valutare se stessi. Più volte ho sottolineato la sostanziale inoffensività sociale degli introversi, il cui tasso di nocività sociale è inferiore alla media. Tenendo conto di questo aspetto, dovrebbe risultare semplice decolpevolizzare le rabbie, identificandole come emozioni che non si traducono, se non in misura minima, in azioni.

In realtà, il problema è un po’ più complesso perché se è vero che gli introversi sono per natura inoffensivi, le rabbie che albergano, finché non si dissolvono in nome di una comprensione critica, comportano un pericolo costante che non si realizza sempre allo stesso modo, ma che si può ritenere grave.

Il pericolo è che, per effetto delle rabbie, la personalità introversa, agganciata in profondità da una sensibilità sociale spesso scrupolosa, attraversi, senza che il soggetto se ne renda conto, degli stati transitori di insensibilizzazione tale per cui egli si ritrova a dire o a fare cose che, se rimanesse in sé, non direbbe né farebbe. In questi stati di coscienza, l’introverso può addirittura avere la percezione di essere finalmente se stesso, di agire senza remore e senza le consuete inibizioni che caratterizzano il suo rapportarsi agli altri.

Prendere atto di questo aspetto alla luce del criterio di equità significa riconoscere che, nel nostro mondo, nessuno è immune dall’alienazione per cui essere se stessi implica l’inibizione della sensibilità sociale e il trattare gli altri come cose.

Penso che questa presa di coscienza sia la più dolorosa che un introverso possa fare perché implica la scoperta che una parte di sé odia di fatto la sensibilità e s’identifica con il modello normativo dominante.

A maggior ragione, il messaggio della LIDI, incentrato non già sull’essere se stessi, che implica l’accettazione di un modo di essere inesorabilmente alienato dal contatto con il mondo, bensì sul diventare se stessi, che implica invece la scoperta e il superamento dell’alienazione costitutiva della soggettività contemporanea, ha un significato importante e profondo che non può essere confuso con la cultura new age.

Esso, infatti, non sollecita il narcisismo individualistico di coloro che hanno bisogno di pensare di essere diversi dagli altri, ma l’umiltà di riconoscere che un’autentica differenziazione passa attraverso il riconoscimento di ciò che ci accomuna in quanto esseri del nostro tempo: ahimé l’intolleranza.

Dall’intolleranza interiore nei confronti degli altri e di sé alla pietas, ad uno sguardo cioè che ci restituisce, dentro e fuori di noi, l’umanità come una specie maldestra che, ossessionata dalla paura e dal dolore, adotta quasi costantemente rimedi che sono peggiori del male.

Se dovessi proporre un obbiettivo al gruppo, questo mi sembra il più significativo.